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No nuke. I numeri parlano chiaro Quanto costa il nucleare? Un miliardo di euro
e dieci anni di cantiere per produrre appena lo 0,5% del fabbisogno nazionale
di energia. Sono questi i numeri di un impianto nucleare, denuncia Sergio
Carrà, professore di ingegneria chimica al politecnico di Milano. Mi pare di capire che vedete il futuro dell'energia nel solare. In questo periodo sembra che entrambi gli schieramenti stanno riproponendo
l'ipotesi di riaprire il capitolo del nucleare. Quali sono poi i costi annuali di mantenimento? Esiste però in Italia un problema con l'energia. Il problema dell'approvvigionamento energetico in Italia però
è consistente. Quindi come si affronta il problema? Quindi con gli impianti solari, tra trenta anni saremo in grado di
produrre il 30 per cento del fabbisogno nazionale. Perciò secondo lei
è inutile sprecare risorse per il nucleare. Perché la Francia invece ce li ha? Un altro miliardo di euro?
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Putin spera in «una sostanziale rinascita
globale dell'industria nucleare», il ministro per l'Energia statunitense,
Samuel Bodman, sottoscrive e rilancia a margine del vertice allargato dei
ministri dell''Energia del G8 in corso a Mosca. Si apre la caccia agli investitori
pubblici visto che quelli privati notoriamente non sono scemi. Sì perché
bisognerebbe essere proprio degli idioti per impelagarsi nella costruzione
di centrali destinate a rimanere inattive. Inaspettatamente il colpo di grazia
alla lobby dell'atomo non arriva dai soliti ambientalisti arrabbiati ma dall'Us
Army che, allarmata dall'esaurimento dei combustibili fossili e dell'uranio,
intraprende una ristrutturazione radicale dei propri consumi energetici.
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Bombe nucleari sul territorio italiano. Citati in tribunale gli USA Cinque pordenonesi citano in sede civile il ministro della difesa americano, Donald Rumsfeld, chiedendo la rimozione delle armi nucleari custodite nella base Usaf di Aviano e, anche, il risarcimento per danni. La somma non è stata quantificata, anche perché
secondo i promotori della clamorosa iniziativa, ogni cittadino residente vicino
alla Base americana potrebbe chiedere il "suo". Sembrerebbe quasi una provocazione, ma i cinque firmatari
del documento, Tiziano Tissino (Beati Costruttori di Pace), Giuseppe Rizzardo
(Comitato unitario contro Aviano 2000), Michele Negro Rifondazione comunista),
Carlo Mayer (Coordinamento No global di Pordenone) e Monia Giacomini (Democratici
di sinistra) non scherzano e si faranno difendere da Joachin Lau, vicepresidente
di Ialana, Associazione internazionale dei giuristi contro le armi nucleari,
da anni impegnato nel combattere la presenza degli ordigni nucleari. Detto fatto. I gruppi pacifisti locali si sono immediatamente mobilitati dando la propria disponibilità a portare avanti l'iniziativa. "La struttura militare di Aviano ha commentato Vanni Tissino - esiste dal 1954 e secondo un recente rapporto del centro studi newyorkese Natural Resources defence council, detiene un deposito di 50 armi nucleari (con Ghedi che ne avrebbe 40, sono le uniche due basi Usaf in Italia a ospitare armi nucleari, ndr). Inoltre con la convenzione segreta del 60, l'Italia e gli Stati Uniti hanno concordato di mettere a disposizione delle forze armate americane l'aeroporto di Aviano per ospitare armi nucleari. Il trattato, simile a quello che gli Usa hanno con Belgio, Germania, Grecia, Olanda e Turchia, prevede la partecipazione dell'Italia (nuclear sharing) alla programmazione e progettazione della strategia nucleare della Nato". Questo "cozza", secondo i firmatari con il Trattato
di non proliferazione del '68 firmato e successivamente ratificato dal nostro
Paese e dall'America, in quanto tale documento prevede da una parte l'obbligo
degli Stati nucleari di non lasciare a disposizione di alcuno armi nucleari,
dall'altra quello degli stati non nucleari di non acquisirne per pervenire
a un totale disarmo. |
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Norvegia boccia Finmeccanica: «Fabbrica bombe atomiche" - Liberazione, 11 gennaio 2006, di Fabrizio Salvatori In Norvegia su questo sono tutti d'accordo, destra e sinistra: le aziende
che producono armi nucleari non hanno "diritto di cittadinanza"
e quindi vanno in qualche modo sanzionate. A farne le spese è stata,
tra le altre, una società italiana, la potentissima Finmeccanica. |
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Disarma e riconverti i consiglieri regionali lombardi con la tua e-mail La campagna "Disarma e Riconverti" i consiglieri regionali con la tua e-mail è una campagna di pressione informatica sui Consiglieri regionali a favore della Proposta di Legge regionale per la promozione del disarmo e della riconversione dell'industria bellica in Lombardia. |
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I militari all'estero perchè. Parlano i documenti Premessa Il “nuovo”
Modello di difesa I bilanci della
difesa Il Libro Bianco
della difesa E se nel Libro Bianco 2002 vengono identificate come minacce le azioni terroristiche, il crimine organizzato, la movimentazione di generi commerciali o di denaro, nella Direttiva Ministeriale per la politica militare 2002-2003 viene segnalata ancora l’esigenza di maggiori risorse per la proiezione delle forze armate all’estero. Conclusioni |
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Armi di distruzione di massa Nel mondo in cui viviamo, sono in circolazione quasi 700 milioni di armi e altri 8 milioni vengono prodotte ogni anno. Ci sono aziende che le fabbricano, intermediari che le mettono in commercio, governi e privati che le acquistano e le vendono, persone che le utilizzano. E in fondo a questa catena, le vittime che ne muoiono, una al minuto. I dati sul traffico incontrollato di armi nel mondo sono sconvolgenti. Occorre riflettere, innanzitutto, sui nomi degli stati che portano la responsabilità più grave di questa incontrollata proliferazione di armi nel mondo. Quasi il 90% proviene dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. I paesi in via di sviluppo sono i primi destinatari di questo commercio: circa il 70% del valore di tutte le armi commercializzate al mondo. Dal 1999 al 2003 Usa, Regno Unito e Francia hanno ricavato dalla vendita di armi ad Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina più di quanto hanno destinato in aiuti a queste stesse aree. Anche l’Italia fa la sua parte: figura al secondo posto dopo gli Usa nella classifica dei paesi esportatori di armi leggere nel mondo ed è al settimo posto per valore complessivo di armi esportate. Nel 2003, ha venduto 1,3 miliardi di euro di armamenti, con un incremento rispetto al 2002 che sfiora il 40%. In un periodo generalmente caratterizzato da una crisi generale dei mercati, un solo settore ha mostrato capacità di performance incredibili: quello delle armi. Sono state esportate verso la Cina armi per 127 milioni di euro: prima ancora che il presidente Ciampi a dicembre si recasse a Pechino e, in nome degli interessi commerciali, annunciasse il vergognoso sostegno dell’Italia all’eliminazione dell’embargo sulle armi alla Cina, il nostro paese già aveva violato quell’embargo e la legislazione italiana./p> Sono scandalose anche le cifre sul business delle esportazioni mondiali autorizzate: intorno ai 28 miliardi di dollari ogni anno. Si tratta di risorse che potrebbero essere sufficienti a ridurre la mortalità infantile ed eliminare del tutto l’analfabetismo in Africa, Asia, Medio Oriente ed America Latina; invece vengono utilizzate per sostenere le politiche sbagliate di governi che preferiscono ingigantire il loro debito estero nella corsa agli armamenti, piuttosto che sostenere programmi virtuosi, e spesso meno costosi, di sviluppo economico e lotta alla povertà. Non ci sono dubbi: la proliferazione delle armi acuisce la povertà del mondo. La metà dei paesi spende più soldi per la difesa che per la salute. Il 42% degli stati con il più alto budget destinato alla difesa figurano in fondo alla classifica dell’indice di sviluppo umano. Ma le statistiche più difficili da raccontare sono quelle che davvero contano. Riguardano le conseguenze finali di questo commercio della morte. Un essere umano ogni minuto, 1.300 ogni giorno, almeno 500.000 all’anno. Le conseguenze, in termini di vittime, sono equiparabili a quelle di due Tsunami ogni anno. Il traffico di
armi colpisce in modo diretto o indiretto soprattutto i più deboli:
le donne Per le donne, la presenza di un’arma tra le mura di casa è un fattore di rischio che aggrava a dismisura la portata della violenza domestica. In Francia e in Sudafrica una donna su tre che rimangono vittime di omicidio è uccisa dal proprio marito con un arma da fuoco; questo rapporto aumenta a due su tre negli Stati Uniti. Le cifre sui minori accrescono la drammaticità del fenomeno. Non c’è solo l’imbarazzante dato dei 300 mila bambini soldato direttamente coinvolti in un conflitto, ma anche l’alto numero di minori che fa parte di bande criminali nelle tante periferie del mondo. In Brasile, ad esempio, le armi di piccolo calibro sono la prima causa di morte dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni: la gran parte delle pistole che vengono sequestrate giorno dopo giorno dalla polizia brasiliana proviene da una fabbrica italiana. Il nostro Made in Italy può davvero essere sempre un motivo di orgoglio nazionale? Dalle gang di Rio de Janeiro e Los Angeles, alle guerre civili in Liberia e Indonesia; dalle crisi dei diritti umani in Sudan e Repubblica Democratica del Congo, alla violenza che ormai quasi non fa più notizia in Iraq e in Colombia. Siamo arrivati ad un punto critico: l’impatto della proliferazione incontrollata di armi ha conseguenze che sono diventate inaccettabili in termini di vite spezzate, di inasprimento del livello generale di violenza tra gli stati e all’interno degli stati, di opportunità perse nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze su scala globale. Eppure invertire questa tendenza non è impossibile. In Canada nel 1995 è stata inasprita la legge sul possesso delle armi: nell’arco di 8 anni, il tasso di omicidi contro le donne è sceso del 40%. In Australia, cinque anni dopo la modifica di un’analoga legge, la percentuale si è addirittura dimezzata. Anche a livello internazionale i risultati ottenuti dalla campagna contro le mine antipersona dimostrano che il cambiamento è possibile: il trattato di Ottawa del 1997 non ha ancora portato al definitivo superamento del problema, ma da allora più nessun paese commercia apertamente questo tipo di armi. "Control Arms" è un ultimatum ai governi, che autorizzano formalmente fino al 90% dei traffici di armi nel mondo. "Control Arms" è un richiamo alla loro responsabilità di disinnescare ora, subito le autentiche armi di distruzione di massa che circolano indisturbate: attraverso un controllo statale più rigoroso sui trasferimenti,
la disponibilità e l’uso delle armi, nel rispetto del diritto
internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario; a partire dall’introduzione
in Italia di una legge specifica sugli intermediari di armi e l’adozione
di norme più restrittive sull’esportazione di armi leggere; I principi alla base di questo trattato sono semplici e alla portata dei governi e della comunità internazionale. Intervengono sia sulla domanda che sull’offerta di armi e si propongono di: - impedire il trasferimento
di armi che sarebbero utilizzate illegalmente per violare i diritti umani,
influenzare negativamente la sicurezza regionale o lo sviluppo sostenibile; Parliamo di un trattato che ripropone obblighi già presenti nel diritto internazionale: possono sembrare norme minime di buon senso, ma riaffermarle in un testo solenne e vincolante dal punto di vista giuridico può realmente salvare milioni di vite. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo hanno deciso di aderire a questa campagna. I governi di paesi come Brasile, Cambogia, Costa Rica, Finlandia, Kenya, Mali, Messico e da ultimo, a febbraio, il Regno Unito, hanno scelto di sostenere questa proposta. Amnesty International auspica che l’Italia faccia subito una scelta analoga. |
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Commissione internazionale per le armi usate da Israele in Libano Sono ormai numerose le testimonianze, raccolte da ospedali, testimoni, artificieri, giornalisti, che sollevano dubbi gravissimi su alcuni episodi dell’attuale offensiva Israeliana in Libano e Gaza. A parte la dispersione a tappeto di uranio impoverito, ed il grave danno ecologico derivato dalla dispersione di carburanti e sostanze chimiche in seguito ai bombardamenti su fabbriche e depositi, destano particolare preoccupazione i racconti e le immagini che mostrano “strani sintomi e sconosciuti” nelle vittime. Si parla di corpi in cui i tessuti sono morti, ma che non mostrano ferite apparenti; corpi apparentemente ’rimpiccioliti’; feriti con le gambe semidistrutte, a cui vengono rapidamente amputate, e che nonostante cio` vanno incontro a necrosi diffusa e morte; sono stati descritti casi con ferite interne come da esplosione, ma senza traccia di scheggie; oppure di cadaveri anneriti, ma non bruciati, o altri apparentemente feriti, ma in cui non si riscontra traccia di sanguinamento (come se fossero prima morti e poi dilaniati)... Tutto questo suggerice la possibilità che siano state utilizzate armi nuove: armi ad energia diretta, agenti chimici e biologici, in una specie di macabro esperimento di guerra futura, in cui non vi sia alcun rispetto per alcunchè: regole internazionali (dalla convenzione di Ginevra ai trattati sulle armi chimiche e biologiche), rifugiati, ospedali e croce rossa, per non parlare delle persone e del loro futuro, dei loro figli, dell’ambiente, che viene reso talmente velenoso da poter considerare una condanna il solo viverci. Nonostante i problemi per i popoli palestinese e libanese siano molti ed immediati, diverse persone ritengono che questi episodi non debbano e non possano passare nell’indifferenza, anzi già diversi appelli sono stai rivolti ad e da esperti e scienziati perchè si faccia luce. Abbiamo ritenuto di rispondere a questi appelli, e mettere a disposizione le nostre esperienze, conoscenze e capacità specifiche in risposta a queste richieste e alle domande che le immagini provenienti dai luoghi bombardati sollevano con forza. Ci stiamo organizzando per essere in grado di offrire supporto alle istituzioni della salute Libanesi e Palestinesi che chiedono sostegno e verifiche. Stiamo esaminando tutte le testimonianze e le evidenze già raccolte, insieme ad altri esperti, per formulare ipotesi di investigazione che possano essere sottoposte a verifica. Chiediamo un intervento da parte delle istituzioni scientifiche che ci rappresentano, e che hanno il dovere di vigilare e di intervenire in casi come questo. Sosteniamo la richiesta che viene da più parti, in particolare dai medici delle zone di conflitto, perchè sia istituita dall’Onu una commissione internazionale ed indipendente dai Governi, che investighi sul campo le denuncie che implicano l’uso di armi di nuovo tipo e di distruzione di massa da parte di Israele nell’ attuale conflitto. Chiediamo fortemente che le procedure a questo scopo vengano attivate solertemente per garantire che i campioni biologici presi dai corpi delle vittime siano preservati in condizioni adeguate per studi scientifici. Chiediamo che dunque questa commissione internazionale abbia accesso a livello a tutte le fonti disponibili, sia operativa e rispeti le procedure di controllo incrociato da parti di diversi laboratori che regolano la “scienza civile” e che quindi porti il caso di fronte alle autorita` competenti, inclusi il tribunale per i diritti umani, e le corti di giustizia internazionale. Da parte nostra, ci riuniremo presto per dare forma operativa all’esame delle tutte le testimonianze ed evidenze, sin qui disponibili ed allargare il gruppo di lavoro ad altri esperti. Come persone e come scienziate/i mettiamo a disposizione quanto possiamo per giungere alla conoscenza dei fatti, convinti che una prospettiva di giustizia, di equita` e di convivenza pacifica tra i popoli siano approssimabili solo con il rispetto delle regole che la comunità internazionale si è data sin ora per quanto riguarda i comportamenti delle parti nei conflitti. Ne chiediamo solo verifica. Ci rivolgiamo a tutte/i le scienzate/i affiche` contribuiscano a questo lavoro portando le loro competenze specifiche ed un aiuto concreto. In particolare, tossicologi, chimici, farmacologi, anatomo patologi e medici esperti di ustioni/traumi sono invitati a mandare una mail all’indirizzo che abbiamo attivato a questo scopo: nuovearmi@gmail.com |
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VERSO IL 15 DICEMBRE Non lo nascondiamo: siamo dei sognatori; vorremmo impedire alla più grande potenza militare mondiale di mettere casa nel nostro cortile. Reportage uranio Di fronte al fenomeno delle numerose morti dei soldati italiani che hanno preso parte alle diverse operazioni di decontaminazione del territorio bosniaco dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia, viene da domandarsi quale sia lo stato di salute della popolazione bosniaca che abita o abitava nelle stesse zone in cui hanno operato i nostri soldati. Non è solo una curiosità, è anche uno degli obiettivi della nuova Commissione d'inchiesta sull'uranio impoverito, recentemente istituita dalla Commissione difesa del Senato, la cui principale novità risiede nella possibilità di indagare non solo sui militari colpiti ma anche “sulle popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale”. Un’analisi della diffusione delle patologie tumorali in Bosnia (in termini quantitativi e con riferimento alla provenienza geografica dei malati) potrebbe fornire elementi anche per verificare l’eventuale correlazione tra l’insorgere delle malattie e le condizioni ambientali che si sono create come conseguenza dell’esplosione di proiettili all’uranio impoverito. Come si evince dalla letteratura recente sull’argomento, a cui si rimanda, non è né dimostrato né negato il legame diretto tra l’insorgere dei tumori e la presenza di radioattività da uranio impoverito nell’ambiente; tuttavia alcuni ricercatori stanno verificando che lo sviluppo di numerosi tumori (linfomi e leucemie) che si riscontrano nei nostri soldati è correlabile all’inalazione e all’ingestione delle nano-particelle di metalli pesanti; si tratta dei metalli pesanti contenuti nei proiettili e che, alla elevata temperatura che si genera nell’esplosione proprio in virtù dell’uranio impoverito, si riducono alla dimensione di non-particelle cancerogene. Verificare e denunciare con più evidenza il legame tra malattie e condizioni ambientali potrebbe servire alla causa della richiesta di decontaminare il territorio. Attraverso le interviste
realizzate abbiamo quindi cercato risposta alle seguenti domande: Non è semplice trovare risposta a queste domande; o meglio, non è semplice trovare qualcuno che risponda. Per diversi motivi. Ma qualcosa emerge. L’aumento della mortalità Al Ministero della Salute della Bosnia Erzegovina non esistono registri dei malati prima della guerra confrontabili con i registri dei malati dopo la guerra. Questo è dovuto al fatto che, dopo gli accordi di Dayton della fine del 1995, una parte significativa della popolazione di origine serba si è spostata in altre zone e in particolare in Republika Srpska, dove è stata inserita nei registri delle relative istituzioni sanitarie; allo stesso modo in Federazione sono arrivate altre persone di origine bosniaca e croata che prima vivevano in altre zone. Dunque le Autorità sanitarie bosniache non possono verificare se tra le persone che abitavano le zone bombardate al momento delle esplosioni con l’uranio impoverito c’è stato un aumento della mortalità. Questo per quanto riguarda il confronto tra dati raccolti prima e dopo le esplosioni. Ma, poiché l’ambiente potrebbe essere ancora contaminato (da radiazioni, ma anche da nano-particelle) sarebbe utile conoscere lo sviluppo dei tumori nella popolazione che ormai da 11 anni abita nelle zone bombardate (le zone sono abitate da bosniaci e anche un certo numero di serbi che hanno scelto di rimanervi). Ma anche questi dati non sono in possesso del Ministero della Salute. Goran Cerkez, assistente del Ministro, dice che questa specifica verifica non è stata fatta perché ci sono altre priorità di cui il Ministero si deve occupare per la Bosnia. All’Ospedale Kosevo di Sarajevo, dove l’indicazione dell’eventuale aumento della mortalità per tumori dovrebbe poter essere accessibile, un appuntamento già concordato con la professoressa Nermina Obralic dell’Istituto di Oncologia, ci viene negato all’ultimo minuto; la professoressa dice che a novembre 2005 ha incontrato una Commissione medica italiana e che ha già detto tutto quello che aveva da dire. In effetti durante tale incontro sono stati stabiliti contatti importanti tra alcuni medici di Sarajevo e dei ricercatori italiani. In particolare la dottoressa Antonietta Gatti dell’Università di Modena, colei che ha individuato la probabile responsabilità delle nano-particelle nell’insorgenza dei diversi tumori nei nostri soldati, sta collaborando con alcuni medici dell’Ospedale Kosevo che, in modo informale, le mandano i dati clinici di alcuni malati per un confronto con i dati dei soldati italiani. Le verifiche di analogie patologiche sono in corso. Ma questo tipo di collaborazione non è tra le attività prioritarie dell’Ospedale che è in forti difficoltà economiche e al momento ha altre priorità (la disponibilità di medicinali, ad esempio: fino a pochi anni fa erano forniti gratuitamente dagli americani, ma adesso scarseggiano). Poniamo la stessa domanda relativa alla verifica dell’aumento della mortalità al professor Slavtko Zdrale dell’Ospedale Kasindo: l’ospedale si trova nella parte serba di Sarajevo (Sarajevo Est, che qualcuno chiama Srpski Sarajevo) e dovrebbe avere in cura malati prevalentemente serbi, quindi in teoria la parte maggiormente “lesa” dall’esplosione dei proiettili all’uranio impoverito. Il dottor Zdrale però è restio a fornire dati; gli interessa di più dire che a Belgrado i medici sono riusciti a curare con successo un uomo affetto dai tipici tumori legati all’esplosione di uranio impoverito. Un interlocutore più disponibile a dare informazioni sull’aumento delle malattie è l’associazione “Il cuore per i bambini malati di cancro nella Federazione di Bosnia Erzegovina” (“Srce za djecu koja boluju od raka u FBiH”) e il suo presidente, Sabahudin Hadzialic. L’associazione è stata fondata a Sarajevo nell’aprile del 2003 e riunisce genitori e amici di bambini malati; essa ha verificato che dopo la guerra la situazione dei bambini malati di cancro ha assunto dimensioni molto maggiori rispetto a prima, per motivi diversi; in particolare nella Federazione la malattia è raddoppiata rispetto al periodo precedente alla guerra, cioè rispetto alla diffusione della malattia tra il 1990 e il 1992; è raddoppiata soprattutto nel periodo 2000-2004: in tale periodo nella sezione di Oncologia e di Ematologia della Clinica Pediatrica a Sarajevo sono stati ricoverati 230 bambini con forme varie di cancro: leucemie, linfoma, cancro delle ossa, eccetera. Questo dato, nella sua drammaticità, è importante ma è troppo semplice, è incompleto e non consente di individuare un legame diretto tra tumori e presenza di uranio impoverito o di nano-particelle nell’ambiente; bisognerebbe sapere di quali tumori sono malati i bambini e in quali aree di Sarajevo vivevano per poter eventualmente mettere in relazione la malattia con la contaminazione da uranio impoverito. Ma all’Associazione non è stato possibile fare questa verifica. Sabahudin Hadzialic ha chiesto da anni al governo della Federazione di effettuare degli studi indipendenti, ma non gli sono stati concessi. Al momento l’informazione può essere accolta come un dato di fatto: nell’area di Sarajevo la mortalità dei bambini è aumentata dopo la guerra. L’unico lavoro oggi disponibile di verifica dell’aumento della mortalità collegabile alle esplosioni di proiettili all’uranio impoverito è quello di Slavica Jovanovic, dottoressa della Dom Zdraljie di Bratunac, la Casa della Salute. Il suo studio riguarda la popolazione direttamente esposta alle esplosioni, poiché ha analizzato l’aumento di tumori tra i profughi che vivevano ad Hadzici. Hadzici è una località a 27 km da Sarajevo che durante la guerra era in mano ai serbi, i quali anche da tale postazione assediavano la città: la località, e in particolare una fabbrica di manutenzione di armamenti, è stata bombardata dalla Nato nel settembre del 1995 con proiettili all’uranio impoverito. Ora i profughi serbi di Hadzici si sono spostati a Bratunac, cittadina che gli accordi di Dayton hanno attribuito alla Repubblica Srpska. La dottoressa Jovanovic ha analizzato i dati relativi alla mortalità nella popolazione proveniente da Hadici (tra le 4.500 e 5.500 persone) e da altre regioni del Cantone di Sarajevo. In particolare ha analizzato e confrontato la percentuale di mortalità su tre gruppi di popolazione del territorio del Comune di Bratunac dal 1996 al 2000: - popolazione residente
a Bratunac già prima della guerra L’analisi dimostra che la mortalità tra i profughi di Hadzici è 4,6 volte più alta rispetto a quella della popolazione di Bratunac, mentre la mortalità dei profughi che arrivano da altre parti della Bosnia è 2,2 volte maggiore rispetto a quella dei cittadini di Bratunac. Ci sono diversi possibili
motivi per spiegare l’alta percentuale di mortalità nella popolazione
che si è spostata da una parte all’altra del territorio: lo stress
durante e dopo la guerra, la perdita di familiari e di beni, la cattiva alimentazione,
le cattive condizioni igieniche, ma anche la vita in un territorio contaminato
da radiazioni o da nano-particelle di metalli pesanti. Dalla stessa analisi
svolta dalla dottoressa Jovanovic è possibile estrapolare la percentuale
di mortalità dovuta a tumori e verificare come la popolazione di Hadzici
presenti la percentuale maggiore rispetto agli altri due gruppi. Purtroppo
non viene fornito il dato di dettaglio circa la tipologia di tumori, dato
che potrebbe confermare il legame con la contaminazione dell’ambiente
da parte dell’uranio. Però intanto si registra che la mortalità
da tumore di questa popolazione è più del doppio rispetto a
quella della popolazione locale e supera di un terzo la mortalità per
tumore degli altri profughi. Il lavoro della dottoressa Jovanovic indica che le persone che abitavano nelle zone dove è avvenuta l’esplosione dei proiettili si sono ammalati di tumore e sono morti in percentuale maggiore rispetto alla popolazione non esposta. Invece, per quanto riguarda l’aumento della mortalità nella popolazione attualmente residente, l’unica segnalazione è quella proveniente dal dato del raddoppio della mortalità nei bambini che vivono intorno a Sarajevo. Ma quali sono le condizioni ambientali attuali delle zone bombardate nel 1995? La contaminazione dell’ambiente secondo l’Istituto di Igiene di Sarajevo L’Istituto di Igiene della Facoltà di Medicina di Sarajevo ha svolto una ricerca nel corso della quale ha analizzato 37 luoghi in cui si sospettava la presenza di uranio impoverito; i ricercatori Suad Dzanic e Delveta Deljkic hanno trovato tracce di uranio impoverito solo ad Hadzici, in prossimità della fabbrica bombardata. La tabella che segue sintetizza i risultati delle rilevazioni a Hadzici. I rilevamenti sono stati fatti a partire dal 2004 e per tutto il 2005. Non ci sono dati relativi agli anni immediatamente successivi ai bombardamenti. Il ritardo nelle analisi è dovuto - rispondono i ricercatori – al fatto che negli anni precedenti non c’erano i fondi per fare tale lavoro. La verifica è comunque importante perché sia nell’ipotesi che ad essere nociva sia la radiazione dell’uranio impoverito, sia nell’ipotesi che lo siano le nano-particelle di metalli pesanti, entrambe le possibili cause hanno durata nel tempo, non decadono. Purtroppo l’Istituto
di Igiene ha verificato la presenza di radiazioni solo nell’acqua; i
ricercatori hanno analizzato l’acqua nei punti esatti delle esplosioni,
subito a lato di tali punti e lontano da essi; e non hanno trovato tracce
significative di radiazioni. Ma perché le verifiche sono state fatte
solo nell’acqua? La risposta è che, siccome nell’acqua
non hanno trovato tracce significative, non hanno analizzato il terreno. Questo
anche perché, secondo i ricercatori e Goran Cerkez, il terreno attualmente
non è contaminato. Non lo è, dicono, sia perché negli
anni precedenti il governo federale ha dato dei fondi per decontaminare le
aree, sia perché l’uranio impoverito si potrebbe essere diluito. La contaminazione dell’ambiente secondo la Commissione parlamentare La Commissione parlamentare sull’uranio impoverito in Bosnia Erzegovina è stata istituita nel febbraio del 2005; essa era presieduta dalla serba Jelina Djerkovic e composta da medici, da fisici nucleari, da chimici e da veterinari. La Commissione ha acquisito alcune informazioni sull’influenza delle radiazioni dell’uranio impoverito sulla salute delle persone e sull’ecosistema; in particolare ha collaborato con gli Istituti di Salute di Sarajevo, di Sarajevo Est e di Bratunac (si veda il citato lavoro della dottoressa Jovanovic) e ne ha assunto i risultati; ha poi collaborato con un Istituto di Ingegneria genetica di Sarajevo che è arrivato alla conclusione che la radiazione provoca modifiche genetiche. Un altro degli obiettivi della Commissione è stato quello di individuare quali aree erano state decontaminate e quali restano ancora contaminate. Sono stati quindi raccolti i dati relativi al lavoro di decontaminazione delle istituzioni bosniache e della Republika Srpska, i rilievi che l’UNEP ha realizzato presso la fabbrica di Hadzici e presso altre località, e i dati che la Nato ha messo a disposizione circa le coordinate dei bombardamenti. I dati rilevati non sono completi: la Nato, per esempio, ha dato solo le coordinate di 16 località sul totale delle 21 bombardate. In ogni caso le tre località maggiormente colpite a oggi risultano Hadzici, Han Piesak in Repubblica Srpska e Kalinovik. Di queste tre località solo una parte di Hadzici (non tutta la fabbrica) è stata decontaminata, le altre no. Così esse sono ancora minate e vi sono ancora i proiettili all’uranio impoverito nel terreno e negli edifici; gli esperti della Commissione hanno espresso il parere che per decontaminare queste località sia necessario togliere definitivamente questi proiettili perché, se è vero che dopo 10 anni la radiazione superficiale non è più presente nell’aria, essa permane nell’acqua e nel terreno. Inoltre i proiettili rimasti inesplosi nel terreno sono pericolosi perché, dice Jelina Djerkovic, nei prossimi 30-40 anni si possono ossidare e liberare le particelle di metalli pesanti che contengono e quindi inquinare terra e acqua ed entrare nella catena alimentare. Anche Zijad Fazlagic, direttore della fabbrica di Hadzici bombardata, conferma che non tutto il terreno della fabbrica è stato decontaminato. C’è un rapporto UNEP che segnala i punti bombardati di Hadzici, ma i proiettili sono entrati a fondo nel terreno e, dice Fazlagic, “quando guardi con gli occhi non li vedi; ma ci sono”. La Commissione ha concluso i lavori a novembre 2005 arrivando ad alcune raccomandazioni: - ha suggerito che il
governo della BiH crei un istituto per la sicurezza finalizzato ad affrontare
a questo problema e che potenzi gli Istituti che si occupano di salute; Perché L’impressione che si ricava dall’insieme di questi contatti è che le autorità bosniache non si possano ancora permettere di affrontare il problema in modo esaustivo. A tratti sembrano anche cercare di ridimensionarlo. Cerkez, per esempio, Assistente del Ministro della Salute, dice che “si fa troppa ricerca e si parla troppo di uranio mentre bisogna cercare anche altre cause”; in particolare, con riferimento alle morti dei nostri soldati, Cerkez domanda: “Cosa hanno mangiato i vostri militari quando erano qui? Io so che i cittadini della Bosnia per tutta la guerra hanno mangiato cibo in scatola per tre anni, con molti conservanti: questi sono fattori di rischio. Anche lo stress è un fattore di rischio, molto più dei bombardamenti. Secondo le nostre fonti ci sono altre cause per le numerose morti” E’ vero che le cause dell’aumento della mortalità potrebbero essere diverse, è vero che non si può pretendere troppo da un Paese che sta lentamente riprendendosi dalla guerra tra mille difficoltà di natura economica e legate alle esigenze di ricostruzione. E’ vero che ci sono molti altri problemi prioritari da affrontare tutti i giorni (come la disoccupazione al 40%, tanto per dirne una). Però, negare la “responsabilità” della contaminazione ambientale correlata con l’esplosione dell’uranio impoverito ha conseguenze pericolose per la popolazione, e intralcia l’avvio del necessario percorso di ulteriore decontaminazione del territorio. Intervista a Zvonko Maric >Abbiamo raccolto il parere di Zvonko Maric, giornalista di “Bosnia-Hercegovina Federacija TV”; Maric lavora ad un programma televisivo che si occupa di quei problemi di cui nella stessa Bosnia si parla poco, di problemi che tanti hanno paura di affrontare, come il caso dell’uranio impoverito. Perché le autorità bosniache non possono dedicare energie al problema dell’uranio impoverito? > Uno dei motivi è il fatto che le Nazioni Unite non hanno controllato bene, non hanno avvisato bene ed hanno anche fatto una grande pressione presso il Parlamento bosniaco, presso la Commissione parlamentare, chiedendo di non parlare, di non mettere in evidenza questo problema. Anche il Parlamento bosniaco è sotto pressione.Un secondo motivo è l’intenzione di tenere la popolazione bosniaca più serena, perché se si cominciasse a parlare di questo problema, la popolazione si preoccuperebbe molto e forse ci sarebbe ancora un ulteriore spostamento di popolazione.Sarebbe necessario portare in tribunale i responsabili delle Nazioni Unite che hanno lasciato eseguire questi bombardamenti all’uranio impoverito. Qua potete parlare con i giornalisti che hanno coraggio e che vogliono che si scopra la verità e che qualcuno risponda per essa. Quelli che sono meno curiosi non parlano mai, cercano di evitare il problema perché temono di non resistere nel portarlo avanti. Secondo lei qual è la vera dimensione del problema nei dintorni di Sarajevo e nei campi profughi serbi in Republika Srpska? Il problema ha delle dimensioni che si cerca di nascondere. Solo quelli che non vogliono essere e non sono informati non sanno che pericolo esiste; ma tutti quelli che sono un po’ informati, non possono non vedere sia il dato del numero di soldati italiani che sono stati qua in missione di pace e che sono morti, come anche il dato dell’elevato numero di persone che abitavano a Hadzici, e che ora vivono nei campi profughi di Bratunac e che si ammalano e muoiono. Stanno morendo molti giovani. Ma si ammalano e muoiono tante persone che vivono ora a Hadzici. Jelina Djerkovic ha detto che molti posti non sono ancora stati decontaminati... E’ vero
e non si può negare, ma la cosa peggiore è che nessuno fa qualcosa
per decontaminare quei terreni che rappresentano ancora oggi un pericolo per
le bombe ancora non esplose nel terreno. La Bosnia Erzegovina non è
ancora uno Stato normale. Non voglio che si pensi che la popolazione non sia
normale, sono i politici a non essere normali, non so se si arrabbiano a sentire
dire questo, ma lo posso mettere per iscritto: non sono normali. Non hanno
fatto proprio niente per proteggere la popolazione, per garantire il diritto
alla salute. Secondo lei, anche la Commissione parlamentare ha subito pressioni nei suoi lavori? Sicuramente le commissioni che si formano in Bosnia hanno l’obiettivo specifico di non fare niente, vengono messe le persone che non vogliono fare niente. Lei hai la libertà di dire queste cose nella sua televisione? Io le dirò sempre queste cose; vivo da 4 mesi protetto da poliziotti perché ci sono delle persone che mi minacciano, ma io le dirò sempre. Ma la sua trasmissione va in onda su questo argomento? Sicuramente, sì. Vorrei però dire ancora una cosa sulla Commissione: essa è sempre sotto la pressione dei politici e delle Nazioni Unite e funziona sempre sotto quelle pressioni; la Commissione non ha tanta forza, tanta possibilità di trattare questo problema, di avere tutti i dati ma anche se li ha, non può pubblicarli. La Commissione è politica, non ha esperti. Cosa pensa del lavoro di Slavica Jovanovic? Lei ha provato ma il suo lavoro non è stato sufficiente. Non perché non sia preparata, ma perché anche lei è stata sotto pressione. In tutta la Bosnia non si trova nessuno che possa dimostrare la relazione tra malattie e presenza di uranio impoverito. Tutti fanno tentativi di fare qualcosa, ma sono quasi tutti sotto pressione. Cosa pensa del lavoro di Slavtko Zdraje? Lui ha alcuni dati, ma se ve li darà, lo farà in modo non ufficiale, perché non li può dare; magari ve li darà un po’ modificati. Davanti alla telecamera dirà qualcos’altro, un po’ meno di quello che è veramente; se gli dici che lo proteggerai e che non metterai il suo nome e cognome, i dati possono essere più importanti, più vicini alla verità. Solo i giornalisti parlano e non hanno paura; hanno paura della loro sicurezza, ma non della loro carriera; sono minacciati, ma non rischiano il posto di lavoro; gli altri cercano di nascondere la verità perché proteggono il loro posto di lavoro. In Bosnia funziona tutto così: se tu intervisti qualcuno della Commissione e gli prometti di non dire il suo nome, ti darà più informazioni rispetto a quello che ti dirà di fronte ad una telecamera. Le sfide della nuova commissione di inchiesta Della “Sindrome dei Balcani”
- così definita sull’onda della più nota Sindrome del
Golfo, che colpì migliaia di soldati statunitensi dopo la prima guerra
in Iraq – si parla ormai apertamente da almeno sei anni, ma ancora nessuna
verità ufficiale ha potuto essere scritta sulle vere cause che hanno
prodotto con certezza le patologie tumorali che hanno coinvolto dai trecento
ai cinquecento militari italiani in missione, causandone la morte col tempo
di oltre il dieci per cento. BASTA BASI - BASTA GUERRA - CONTRO LE SERVITU' MILITARI «Nessuno può più ignorarci, gli americani non passeranno» BASI USA – Le nostre tasse per le basi USA. Si tagliano i fondi per gli enti locali, si sforbiciano il welfare e la cultura, perfino le Olimpiadi di Torino. Ma guai a toccare ciò che deve rimanere segreto. Cioè che con i soldi dei contribuenti italiani si pagano non solo le spese militari del nostro paese, ma addirittura i costi delle basi americane in Italia. Denaro liquido, per un totale del 37 per cento delle spese complessive, ma anche sgravi fiscali, sconti e forniture gratuite di trasporti, tariffe e servizi. In proporzione, siamo il paese Nato che versa di più agli Usa: il 37 per cento, contro il 27 della Germania. In valori assoluti, il rapporto è inverso: la Germania, nel bilancio 2001, ha stanziato 862 milioni di dollari, e l'Italia 324. Contributi diretti e indiretti «aggiuntivi rispetto a quelli della Nato», spiega lo statunitense Report on allied contributions to the common defense , rivelato ieri dal cronista del Giornale di Sardegna Marco Mostallino. Nell'anno successivo, è scritto nero su bianco in un rapporto della Commission on review of overseas military facility structure , trasmesso al presidente Bush e al Congresso Usa il 15 agosto scorso e in nostro possesso, la Germania ha aumentato i contributi a 1.563 bilioni di dollari, l'Italia a 366,54. Dunque nei primi due anni del governo Berlusconi, mentre si sforbiciava qua e là lo stato sociale e si approvavano condoni per fare cassa, lo stanziamento è aumentato, e tutto lascia presumere che nei successivi tre anni non sia diminuito. Ma non ci si lasci ingannare: nel 1999, infatti, governo D'Alema di centrosinistra, lo stanziamento fu di ben 480 milioni di euro. |
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